E’ stata pubblicata la sentenza n. 194 della Corte Costituzionale, qui allegata, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale del d.lgs. 23/2015, nella parte in cui fissa il meccanismo di quantificazione del risarcimento danni in caso di licenziamento invalido.
La Corte ha ritenuto incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato – ancorato solo all'anzianità di servizio - previsto dal decreto legislativo n. 23/2015 e confermato dal cosiddetto “decreto dignità” del 2018.
Il meccanismo di quantificazione – un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” – rende infatti l’indennità “rigida” e “uniforme” per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione “forfetizzata e standardizzata” del danno derivante al lavoratore dall'ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Pertanto, il giudice, nell'esercitare la propria discrezionalità nel rispetto dei limiti, minimo (4, ora 6 mensilità) e massimo (24, ora 36 mensilità), dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità, terrà conto innanzitutto dell’anzianità di servizio – criterio che ispira il disegno riformatore del 2015 – nonché degli altri criteri “desumibili in chiave sistematica dall'evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”.
È quanto si legge nella sentenza n. 194 depositata oggi (relatrice Silvana Sciarra) con cui la Corte ha dichiarato incostituzionale l’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 – che in attuazione della legge delega n. 183/2014 (cosiddetto Jobs Act) ha disciplinato il “contratto a tutele crescenti” – sia nel testo originario sia in quello modificato dal decreto legge n. 87/2018 (il cosiddetto “decreto dignità”), che si è limitato a innalzare la misura minima e massima dell’indennità.
La disposizione censurata contrasta anzitutto con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse.
Secondo la sentenza, l’esperienza mostra che il pregiudizio prodotto dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori – l’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è solo uno dei tanti – e che questa pluralità è stata sempre valorizzata dal legislatore.
La tutela risarcitoria prevista dalla disposizione denunciata si discosta, però, da questa impostazione perché ancora l’indennità all'unico parametro dell’anzianità di servizio. Così facendo, finisce col prevedere una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, venendo meno all'esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, anch'essa imposta dal principio di eguaglianza
L’articolo 3 contrasta anche con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
La rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata, come nel giudizio principale.
In tali casi, appare ancor più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della misura minima dell’indennità di 4 (e, ora, di 6) mensilità. Pertanto, l’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro.
Dall'irragionevolezza dell’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 discende anche il vulnus recato agli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione.
La Corte afferma: “Il forte coinvolgimento della persona umana (…) qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele”.
La disposizione censurata viola, infine, gli articoli 76 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 24 della Carta sociale europea, secondo cui, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le parti contraenti si impegnano a riconoscere “il diritto dei lavoratori, licenziati senza un valido motivo, a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.